LA STAMPA – Appello per le oasi che stanno morendo

Tratto da: LA STAMPA del 05/07/2011

Appello per le oasi che stanno morendo

In Africa come in Oriente sono state culla e veicolo della civiltà. Oggi i deserti rischiano di inghiottirle. L’allarme di Pietro Laureano

FABIO SINDICI

La parola evoca subito una cartolina esotica. Palme che rompono la monotonia del deserto, orti impossibili tra le dune, gruppi di dromedari all’abbeverata. L’oasi è stata a lungo considerata l’eccezione dei deserti, un miracolo della natura. «La parola è molto più antica della cartolina» spiega Pietro Laureano, consulente dell’Unesco per le zone aride e fondatore del Centro Studi sulle Conoscenze Tradizionali. «Appare per la prima volta in Egitto, nei papiri dell’Antico Regno, come uahat , che è ancora oggi il termine con cui gli arabi chiamano le oasi. L’esotismo arriva molto più tardi, dalla sorpresa dei primi viaggiatori occidentali che si avventuravano nelle distese di sabbia e pietre».

L’oasi, secondo Laureano, è come i miraggi: inganna l’occhio. «Sembrano fenomeni naturali; invece le oasi sono quasi sempre artificiali. Un prodotto culturale, ottenuto grazie a un pacchetto di conoscenze, che si sono evolute e affinate a partire da epoche preistoriche. Oggi l’idea che le oasi siano un ecosistema creato dall’uomo è accettato dalla maggior parte degli studiosi, ma fatica a passare nelle enciclopedie. Nella lista del World Heritage dell’Unesco, diverse oasi, come quella di Azgoui, in Mauritania, culla della dinastia Almoravide, figurano proprio come paesaggi culturali». Laureano studia da anni i sistemi idrici nelle zone più aride del globo. Ed è stato il primo a formulare l’idea che le oasi dei deserti africani e asiatici prosperino su sofisticate reti di gallerie di drenaggio e captazione dell’acqua. In Pianeta Oasi , libro-appello che ha appena finito di scrivere, Laureano si spinge più in là, con una nuova tesi: le oasi non sarebbero solo un prodotto, ma un fattore culturale determinante, che ha influenzato la storia delle civiltà tra Europa, Asia e Africa.

«Sono un miracolo dell’uomo. E oggi rischiano di sparire» rilancia Laureano. Quando non sono curate, il deserto le inghiotte di nuovo. «Oasi che esistono da millenni, oggi sono al collasso. Come un’architettura, hanno urgente bisogno di restauri». Da qui nasce il libro, al crocevia tra l’atlante storico-geografico e il manifesto culturale. È stato finanziato con un programma dell’ Undp, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. L’edizione in arabo, inglese e francese è a cura della Fondazione Mohammed V, intitolata al precedente re del Marocco. «In italiano sarà disponibile prima su Internet, poi andrà in libreria» dice l’autore. Il progetto prevede anche un museo a Sijilmassa, un tempo ricchissima città, tappa sulla via dell’oro, a Sud delle montagne dell’Atlante; ora le sue splendide mura sono in gran parte interrate, il suo palmeto, meraviglia delle carovane, si è ridotto della metà.

Ma se le oasi sono un capolavoro umano, a che epoca risalgono? Come sono sorte? «Alcune hanno origine alla fine del neolitico, come quella di Nul Lampta, in Marocco, sulla Tarik Lamtuni, la via degli uomini velati, una famosa pista Tuareg. Sono antichissime anche le oasi nel deserto del Gobi, i primi imperatori cinesi cercano subito di controllare il corridoio di Ganzhou, tra le oasi di Wuwei e Sozhou: si tratta dei primi scali commerciali su quella che sarà la via della Seta. O ancora l’oasi di Shabwa, nello Yemen, che ci parla del mito dell’Arabia Felix, dove sono in corso importanti scavi archeologici. E, naturalmente, le oasi occidentali dell’Egitto, come Siwa, Kharga, Dakhla, le prime di cui abbiamo notizie scritte. Gli Egizi consideravano le oasi una riserva di cibo nei periodi di crisi, per esempio quando venne occupata la zona del delta del Nilo, durante l’invasione dei popoli del mare». Il sistema delle oasi si sviluppa parallelamente a quello delle grandi civiltà idrauliche dell’Egitto e di Sumer, dell’India e della Cina, secondo le ricerche di Laureano. Tra la fine del neolitico e la prima età dei metalli, l’uomo inizia la domesticazione della palma da datteri e del dromedario. «Nelle oasi fredde, come quelle del Gobi, sono sostituiti dal pioppo e dal cammello. Gli alberi servono per fissare il terreno, gli animali per le comunicazioni, le oasi saranno sempre un sistema aperto, un trasmettitore di civiltà. Si basano su un’alleanza tra nomadi e sedentari. A differenza dei grandi stati dispotici, sono rette da assemblee di eguali, come la polis greca». Intorno al 1000 a. C. vengono costruite nel Beluchistan le prime gallerie sotterranee per la raccolta e la distribuzione dell’acqua, in grado di garantire le riserve idriche delle oasi. In breve tempo la tecnica si diffonde lungo le vie carovaniere. In Iran le gallerie si chiamano qanat , in Algeria foggara . «E le oasi fioriscono. Alcune città oasiane come Samarcanda, diventeranno crogiuoli culturali. Altre come Tamentit, nel Sahara, furono l’epicentro dell’impero commerciale delle comunità zenete di religione ebraica, nel V secolo prima di Cristo. Anche nelle oasi più piccole gli abitanti apprendono tecniche essenziali come quella di creare dune di protezione grazie a graticci fatti di rami di palma essiccati. E a usare piante nomadi, che si spostano alla ricerca di umidità».

I «portolani del deserto», le mappe medievali che seguivano le piste delle oasi assomigliano alle carte nautiche. Dune invece che onde, palmeti al posto di isole. In molti periodi, il volume del commercio sulle vie carovaniere deve aver superato quello delle rotte marittime. Di oasi in oasi, passano merci e idee, eserciti e religioni. «Le oasi formano una sola grande rete intercontinentale, dove s’intrecciano le vie del sale e quella dell’oro, della seta e dell’incenso. Il buddismo raggiunge la Cina dall’India attraverso le oasi della via della Seta. A volte, diventano eremi, rifugi, come quella di Dunhuang dove i monaci hanno intagliato le grotte nelle falesie con le immagini dei «mille Buddha». O sedi di biblioteche celebri e università, come, in epoca medievale, Tumbuctou nel Mali o Chinguetti in Mauritania».

Nei caravanserragli delle oasi si ascoltano le storie della Mille e una notte e si tenta di trafugare il segreto della fabbricazione della seta. «Una riprova che le oasi sono artificiali è che non se ne trovano nei deserti australiani e americani. Con l’eccezione della Baja California, in Messico, dove i gesuiti, nel ’600, riuscirono a ricreare una piccola rete di oasi bordate da palme, che esistono ancora oggi. Ciriproveremo a Tucson, in un convegno il prossimo novembre, dove verrà lanciato un progetto che prevede la fondazione di un’oasi fredda nel deserto dell’Arizona. I grandi commerci oggi non passano più per le vie delle oasi, ma queste rimangono un modello di utilizzazione delle risorse oltre che un tesoro culturale. Siamo in tempi di cambiamento climatico. Quando un’oasi muore, il deserto è più vicino».

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