LARES – “Sulle orme delle carovaniere del deserto Il viaggio di un architetto antropologo”

Da LARES
Rivista trimestrale di studi demoetnoantropologici
diretta da Giovanni Battista Bronzini
Già Bollettino della Società di Etnografia Italiana fondato nel 1912 e diretto da L. Loria (1912), F. Novati (1913-1915), P. Toschi (1930-1974)
Anno LXII n.4 Ottobre-Dicembre 1996

Sulle orme delle carovaniere del deserto
Il viaggio di un architetto antropologo

Nella successione a distanza ravvicinata dei tre volumi di Pietro Laureano {Sahara, giardino sconosciuto, Firenze, Giunti, 1988, edizione francese Sahara, jardin méconnu, Paris, Larousse, 1991; Giardini di pietra. I Sassi di Matera e la civiltà mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; La piramide rovesciata. Il modello dell’oasi per il pianeta Terra, ivi, 1995) vorrei rimarcare la continuità di un obiettivo ben determinato e di un metodo di ricerca ad esso adeguato: obiettivo e metodo che raggiungono il loro compimento nel terzo volume, che qui intendo illustrare e commentare.

L’obiettivo è costituito dalla individuazione di modelli di antiche civiltà, storicamente collegabili, epperò distanziate nello spazio, spesso anche nel tempo di origine e sviluppo, che rivelano una uguale, simile o analoga tettonica della vita materiale e spirituale delle rispettive popolazioni. Una tettonica ispirata a un rapporto di mutua compensazione fra natura e cultura, in che è riposto il segreto di lunga durata e di straordinaria resistenza delle relative strutture fisiche e ideologiche, adeguate o adeguabili alle rinnovate esigenze di sopravvivenza. Un obiettivo, dunque, mirato e ben preciso, ma mobile, sia per se stesso, in senso diacronico e sincronico, sia per l’osservatore-ricercatore, tenuto a visitare località diverse, ad analizzare le loro strutture, a riesumare quelle sommerse, a ritrovarne la logica inventiva e costruttiva, a ricostruirne, quando si è persa, la funzione originaria: questa può essere, anzi paradossalmente è, tanto più complessa quanto più semplice e naturale è la costruzione. Compito tecnico e insieme umanistico è quello di seguire della cosa il processo d’uso nel tempo. Ed è qui che lo studioso si trova a dover abbracciare competenze anche non professionali, se gli preme cogliere in pieno l’obiettivo. Nel caso specifico di Laureano, l’architetto, il geniale architetto, qual è e mostra di essere, indossa l’abito del geografo, del paletnologo, dell’etnologo, dello storico. E, pur in parttime, vi si sente a proprio agio, localizzando, storicizzando, antropologizzando il discorso, senza perdere mai di vista il filo conduttore della sua ricerca, che rimane centralmente architettonico e che, proprio per tale natura concreta e visiva, diventa speculare dei molteplici aspetti di ordine spaziale, temporale, economico, sociale, istituzionale, religioso, che vi si riflettono. E c’è di più: egli mette a suo agio il lettore con una scrittura moderna, agile, chiara, accattivante, direi geometrica, conforme alla geometria strutturale dell’unità nella varietà, dell’uguale nel diverso, del nostro nell’alieno: rapporto oppositivo da conciliare col connubio super partes et loca tra natura e cultura, di cui sostanzia il messaggio incluso nella sua ragionevole proposta di rispetto dell’antico come primo cànone di salvaguardia di quella parte della nostra identità culturale che ci proviene dall’ambiente fisico in cui viviamo e operiamo.

Non oserò ovviamente addentrarmi nel labirinto dell’officina specializzata di architetto e strutturalista in cui l’Autore forgia da capomastro (che vuol significare molto di più dell’inflazionato titolo accademico di maestro) la sua ineccepibile analisi delle tecniche e pratiche adottate per il miglior impiego delle risorse idriche. Non saprei per mia incapacità uscirne, o avrei bisogno di molte Arianne! Ne mi è dato accedere alla specola da cui egli giudica da esperto la realtà osservata de visu e toccata con mano. Questa sua conoscenza diretta di località e popolazioni scelte come casi esemplari rende ancora più evidente il difetto di un’ottica ancora colonialistica con cui siamo abituati a guardare e giudicare da lontano e dal di fuori tutto ciò che è o appare alieno dalla nostra civiltà, altro da noi. Posso dire soltanto che i vari labirinti oasiani illustrati dall’Autore hanno uno schema comune di fondazione, imperniato sul fattore acqua.

Sull’acqua, bene essenziale di vita sul nostro pianeta, quella che scorre dal sottoterra e quella che viene dal ciclo, si appunta proficuamente l’attenzione dell’architetto, ricercatore di quanto si ricava dal sottosuolo prima di essere costruttore di quanto sporge da esso. L’acqua è uno dei quattro elementi (gli altri sono l’aria, la terra, il fuoco) generatori del cosmo per i filosofi antichi(1). Essi assumono valore sacro proprio in conseguenza delle riconosciute loro funzioni vitali. Nella religione pagana avevano il titolo di geniales, in quanto datori di vita a tutto l’universo. Il cantico di S. Francesco recepisce e svolge in senso panteistico questa loro funzione mediatrice e causativa del nostro essere creature di Dio, e per sor’acqua, si dice appunto che «è molto utile et hùmele et pretiosa et casta». In tal caso il testo poetico diventa documento storico. In effetti, se si ripercorre la storia dell’umanità, si constata una parabola discendente e di continuo degrado nell’uso di tutti e quattro i suddetti elementi capitali. Così dal preistorico culto delle acque, che rispondeva a un bisogno primario di vita e che è stato mantenuto nelle culture classiche, si è giunti a far dell’acqua un bene a disposizione delle nazioni ricche e a farne sentire perennemente la sete alle popolazioni povere del Mezzogiorno d’Italia e dei Paesi del Terzo Mondo.

A supporto della importanza del problema idrico, rilevata da Laureano per l’ecosistema della rimodellazione dei moderni acquedotti sugli antichi, ai fini di una meno violenta e più razionale architettura, rivolta non solo alla organizzazione funzionale ed estetica della città, bensì anche del suo territorio, quindi attenta ai bisogni della campagna, segnalerò la rilevanza massima che viene data al suddetto problema da parte di tecnici e studiosi di agraria per le soluzioni produttive che si possono dare e da parte di museologi della ruralità per la scrupolosa rappresentazione museografica del nesso acqua-agricoltura. Su questo tema si è tenuto dal 27 settembre al 3 ottobre 1992 in Italia, itinerante tra Umbria, Emilia-Romagna, Lombardia e Trentino, il X Congresso internazionale degli agromusei, organizzato dall’Association Internationale des Musées d’Agriculture, che è aggregata all’Unesco. Una delle relazioni più significative del Congresso è stata svolta da Jean-Claude Duclos, conservatore del Museo etnoagricolo del Delfinato e vice-presidente dell’AIMA.(2) Questi, partendo dalla considerazione dell’agricoltura come matrice di ogni cultura in quanto sintesi originaria e suprema della simbiosi uomo-ambiente, ha confermato la validità assoluta dell’approccio ecosistemico in stretta connessione con i maggiori problemi del la società contemporanea, quali quelli della fame, della conservazione di determinati paesaggi rurali, e complessivamente per soddisfare il bisogno di riconquistare negli spazi delle città e dei paesi la identità culturale che andiamo sempre più perdendo.

Per meglio valutare il metodo interdisciplinare applicato da Laureano, gioverà esaminare gl’impieghi ch’egli fa delle singole discipline, utilizzandole globalmente e provandone gli effetti convergenti. Dall’architetto passiamo al geografo, allo storico, all’antropologo e così via. La geografia, specialmente quella antropologica, non è stata per Laureano una scienza collaterale da utilizzare ricavandone nozioni libresche, ma un’acquisizione di luoghi, uomini e cose, ch’egli ha tratta da una decennale continuativa esperienza di osservatore dei modi di vita, studiandone personalmente le forme di insediamento urbanistico. Cardine fondamentale di questo libro è il viaggio nella sua accezione ed effettualità etnologica. Laureano ha viaggiato per vedere, capire l’antico e progettare il nuovo come sviluppo dell’antico. Lo ha fatto per una missione speciale quale consulente dell’ UNESCO, per la individuazione dei beni culturali di grande rilevanza a livello mondiale da salvaguardare. I Sassi di Matera sono stati inseriti in tale censimento. Questo risvolto pratico aggiunge merito e concretezza al suo impegno di lavoro.

Il paradigma del viaggio ha prodotto una ricca letteratura mitica e storica ed ha una tradizione antica e moderna di straordinario valore, da Omero, Strabene, Virgilio ai taccuini e giornali di bordo di navigatori e scopritori delle Indie ed Americhe, nel così detto secolo d’oro di conoscenze del mondo, alle relazioni dei primi etnografi ed etnologi, che furono quegli stessi e al loro séguito i missionari, per sfociare sul versante romanzesco in una rigogliosa narrativa avventurosa inglese e francese, che arriva fino al Settecento con Robinson Crusoe di Daniel De Foe; mentre sul versante critico si accese sùbito una fervida querelle fra denigratori e difensori dei selvaggi. Tra i difensori, che prevalsero per numero e qualità, ricordiamo nel XVI secolo il religioso eretico spagnolo Bartolomé de Las Casas (1474-1566), il pastore protestante francese Jean de Léry (1534-1613). Il più fine laudator fu certamente Michel de Montaigne (1533-1592) con gl’impareggiabili affreschi dei suoi Essais. Dove così egli ritrae e nobilita i selvaggi: Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontandoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie. […] E sono ancora nella felice situazione di desiderare solo quel tanto che le loro necessità naturali richiedono; tutto quello che va al di là è superfluo per loro. Generalmente, fra loro, quelli che hanno la medesima età si chiamano fratelli; figli i più giovani, mentre i vecchi sono padri per tutti gli altri. Questi lasciano ai loro eredi in comune il pieno possesso de beni indivisi, senz’altro titolo che quello puro e semplice che natura da alle sue creature mettendole al mondo.

Su quel terreno, come in uno dei giardini interplanetari avvistati e illustrati da Laureano, al cospetto e confronto di una natura vergine e di una cultura ad essa adeguata, spuntò e crebbe in Europa il mito del buon selvaggio e insieme rifiorì quello del Paradiso terrestre, non senza effetti benefici di riflessione morale e consapevolezza politica per l’idea d’Europa, come lucidamente incise in memorabili pagine lo storico Federico Chabod.(3) Il libro di Laureano, che può essere gustato anche come carnet de voyage, trova agganci in quella letteratura. Se valutato – e merita di esserlo – come testo di architettura antropologica, esso trova verifiche e conferme del suo assunto di fondo nella migliore ricerca etnologica contemporanea, orientata verso un nuovo umanesimo da instaurare per il rapporto fra cultura osservata e cultura osservante e per la più alta considerazione delle culture altre, specie nelle fasi di genocidio ed etnocidio o di distruzione indiscriminata dell’antico che quelle culture ci trasmettono. E tuttora valido – e il libro di Laureano ce lo conferma – l’interrogativo che si poneva, già venti anni fa, l’etnologa Ernesta Cerulli, ponendo l’antinomia fra Tradizione e etnocidio come I due poli della ricerca etnologica oggi (questo è il titolo e sottotitolo di un suo libro del 1977) e cosi confessando il dubbio che la tormentava: Le culture di interesse etnologico sono davvero così profondamente diverse dalla civiltà occidentale, si da non poterla mai raggiungere nel cammino del progresso, in quanto rappresentano sopravvivenze dell’epoca preistorica? oppure le differenze sono più formali che sostanziali, più quantitative che qualitative? perché in etnologia si parla sempre e solo di culture e mai – o quasi mai – di individui?(4)

Se si vuoi fare un ulteriore salto su questa linea di pensiero e avvicinarci ancora di più alla dimensione prospettata da Laureano, bisogna passare dal concetto di individui a quello di mèmbri di comunità, artefici di culture comunitarie. E in questa direzione che si proietta per via geografica e storica la mappa, disegnata da Laureano, delle oasi del deserto, intese queste in senso reale e simbolico. La storia ch’egli pratica si adegua al progetto ed è quindi più largamente comparativistica che microscopicamente focalizzata, sì da apparire agli antipodi della nouvelle histoire delle Annales, che oggi ha la meglio, ma come questa è volta a considerare realizzazioni di comunità stimolate da bisogni esistenziali. E quindi una storia che ha come punto di forza l’avere come oggetto di studio le cose, ossia le forme di insediamento, i mezzi di sussistenza e i modi di sopravvivenza, rispondenti a quelli che vengono denominati in etnologia propriamente bisogni primari. Le cose, come in archeologia, costituiscono la fonte principale, mentre sono fonti collaterali e integrative la documentazione scritta e orale, esplicative della mentalità e ideologia collettiva, che è sempre stata alla base delle più importanti e ardite costruzioni di utilità pubblica, materiale e/o spirituale, dalle piramidi d’Egitto ai palazzi imperiali di Roma antica, agli acquedotti medievali e moderni, la cui messa in opera era non a caso contesa fra Dio, o il suo rappresentante di turno, come fu per lungo tempo il pagano Virgilio cristianizzato, e il Diavolo o L’Anti-Cristo.

Il manto storico sovrapposto da Laureano viene a coprire a grandi arcate un lungo periodo cronologico, dalla prima età dell’uomo sapiens fino al suo ingresso nell’era industriale, e un’ampia estensione di lontane e distaccate aree, di etnie incrociatesi, in situazioni diversificate: una storia omologante di formazioni, emigrazioni, stabilizzazioni sia pur sempre temporanee; una storia che riunisce storie singole e particolari di culture estinte per morte naturale o violentemente infrante da far emergere, talune almeno alla nostra memoria dalla loro inevitabile scomparsa e talaltre alla nostra coscienza dal nostro responsabile oblìo, dalla nostra superba non curanza, dalla nostra ingenuità o disonestà intellettuale, dal nostro sempre più crescente arroccamento eurocentrico, che in gran parte è derivato dal deprezzamento delle culture primitive. E qui siamo con Laureano in pieno focus antropologico centrato su un campo che viene delineato nelle sue precise coordinate geografiche e storiche. Il nostro eurocentrismo, che ci fa autoconsiderare grandi navigatori, primi scopritori e conquistatori di terre oltreoceaniche, cozza contro la storia, per cui la priorità di certe scoperte europee va riveduta. La scoperta del continente americano fu anticipata dai Vichinghi e forse da navigatori africani. Ci sono indizi che popoli di oltre Atlantico, denominati Indiani, siano sbarcati in Europa in epoca romana. Ma, in fatto di scoperte, c’è di più. L’alfabeto fu importato in Grecia dai Fenici. La tesi, prospettata da Erodoto (lib. V, 58, 1: «I Fenici venuti insieme a Cadmo, dei quali facevano parte i Gefirei, stabilitisi in questa regione, introdussero fra i Greci molte nuove conoscenze e, in particolare, l’alfabeto, di cui in precedenza i Greci, secondo me, erano sprovvisti; in un primo tempo si servirono dei caratteri ancora usati da tutti i Fenici; in seguito, col passar del tempo, cambiando lingua cambiarono anche la forma delle lettere»),(5) ha trovato conferma nella recente critica filologica.(6)

L’archeologia non è da meno della filologia nel rivelarci sorprese, che possono spiegarci meglio il significato originario dei segni più maestosi e rappresentativi del potere regale e sacro delle faraoniche dinastie egiziane, quali sono le piramidi. Le piramidi, come si deduce dalla etimologia della voce dotta faraone, ricalcato nel lat.Phara-ónis sull’ebr. Par’óh, derivato a sua volta dall’egiziano per-a’a, indica la «grande casa». Alcuni anni fa (1991) un team di archeologi americani ed egiziani scoprì in Egitto nella zona del villaggio di Abydos, circa 450 chilometri a sud del Cairo, «una intera flotta di 12 navi risalenti alla prima dinastia dei faraoni, quindi a qualcosa come 5.000 anni fa».(7) Secondo l’americano David O’Connor, la flotta, datata tra il 2.700 e il 3.000 B.C., sarebbe stata sepolta nelle vicinanze dei luoghi funebri «per permettere ai faraoni di salire a bordo di questi “vascelli magici” e di compiere il lungo viaggio nell’aldilà, cavalcando i raggi del sole di giorno e le stelle del firmamento di notte». Questo ritrovamento mi induce altresì a segnalare le ricerche promosse dall’Associazione internazionale «Antropologia e mondo antico», presieduta da Carlo Tullio Altan, con sede centrale a Siena, della quale faccio parte; che ha tenuto peraltro, nel maggio dell’anno scorso (1995) a Milano, un convegno internazionale di antichistica e antropologia su «Essere io, essere noi: identità individuali e collettive», dove lo storico Pascal Vernus relazionò proprio su Histoire collective et identité individuelle dans l’Egypte pharaonique .(8)

Per quanto attiene al moderno, notevole è stato l’approfondimento delle ricerche antropologiche.(9) La cultura africana ha dato in questi ultimi decenni prova di grande vitalità, in campo letterario, specificamente narrativo e poetico.(10) Ne ebbi conferma nelle Giornate di studi comparativistici svoltesi nel 1984 su «Langage et culture en Afrique de l’Ouest».(11)Sulle fiabe di magia è da poco uscito in Germania un importante studio di S. Schmidt, Zaubermàrchen in Afrika. Endhiungen der Damara una Nama, Kòln, Kóppe, 1994.(12)

Tutto ciò consente di immaginare il contesto naturale e ^culturale in cui sono sorte le dimore del Sole, come Laureano definisce le oasi del Sahara, che in tutti i loro tipi hanno, a fondamento costruttivo e come confine di separazione dal deserto, l’acqua, quale simbolo di un benefico naufragio primordiale. Gli Egizi, riferisce Strabene (Geografia XVII, 1, 5), chiamano oasi i luoghi abitati circondati da vasti deserti, come isole nel mare aperto. La voce propria ‘acqua’ ha anche il senso di una fonte salutare e sacra, ed è congiungibile per il radicale con ’soglia’ e ‘viaggio’, ‘cammino’. L’acqua, dunque, innuclea il duplice significato di un bisogno fisiologico e di una protezione divina: entrambi necessari per il viaggio nel deserto. Non a caso si trovano compendiati nel culto bizantino della Odegitria e in particolare in quello della Madonna d’Idris a Matera, la cui immagine invisibile fu tutt’uno con la roccia, che s’erge al centro del Sasso Caveoso sull’alta sponda del torrente Gravina.

La trattazione di Laureano ci predispone e ci spinge a tali escursioni semantiche, che non sono avulse dalla comprensione della realtà, anzi l’agevolano e provano. Altrettanto chiarificatrici del nesso natura-cultura sono le metafore ricorrenti nelle culture mediterranee e orientali in genere. E fa bene Laureano a riportarle nel suo discorso o nei testi messi ad occhiello dei capitoli. Una di esse è il «ventre del Sahara» algerino, ossia del gigante Sahara; un’altra è la sua voce, che i Taureg ascoltano seduti al tramonto sulle cime delle dune più alte: perle, tutt’è due insieme, assai significative di antropomorfismo del deserto considerato come gigante. Il gigante è stato sempre il predecessore autoctono dei personaggi sacri nei culti religiosi del bacino mediterraneo. Una corrispondenza la troviamo nel nome del Promontorio garganico, la cui radice gar- (comune anche a gravina e, da cui viene il nome del torrente Gravina) significa gola, riferibile alla conformazione grottale e cavernosa della montagna, raffigurabile con quella di un gigante (qual è e come si chiama, per il principio nomen-omen, il sovrumano personaggio rabelaisiano di Gargantua). Il che ci riporta al mitico dio Gargan, che ha preceduto l’insediamento di divinità profetiche e guaritrici, quale Giove Dodoneo, Calcante e San Michele, fino al contemporaneo Padre Pio: una successione che trova riscontro nel Mont Saint Michel, fra Bretagna e Normandia, celebre per il gioco notturno e diurno delle maree, il cui nome originario era Mont de Gargan.(13)

Altro interessante esempio di correlazione di parola e cosa si può cogliere nell’architettura delle oasi per la ripartizione delle acque, che, come illustra Laureano, avviene mediante la kesria, un «particolare dispositivo in pietra a forma di pettine, che, attraverso i suoi denti, immette l’acqua nelle canalizzazioni secondo le quote di proprietà. Da qui la sacralità magica del pettine (onde kesria potrebbe significare proprio pettinessa ripartitrice), usato come segno di fertilità e crescita, gioiello portato dalle donne berbere, tatuaggio di prestigio sociale o foggia distintiva di pettinatura. Tutto questo si confa con la tradizione oggettuale e ideologica del pettine che appare come strumento per la strigliatura della lana delle pecore nel Neolitico, in corrispondenza della ricostruibile voce indoeuropea pekten.(14) II secondo passaggio è rappresentato dal pettine del telaio, che serve appunto a far passare attraverso i suoi dentelli «tutti i fili dell’ordito a fine di dividerli regolarmente» (GDLI, s.v. 2). Tale funzione, analoga a quella della kesria algerina, è propria del cardare (s.v. in GDLI) consistente nel «pulire e pettinare (con gli scardassi o con le carde meccaniche) la lana, il lino, la canapa ecc., in modo da separare le fibre e renderle soffici e senza nodi». La cardatura o scaratura operata sul telaio si sviluppa come tecnica applicata al prodotto della strigliatura della lana sul corpo delle pecore. E al pettine del telaio, derivato direttamente da quello d’uso pastorale, si riferisce il noto detto Tutti i nodi vengono al pettine, che invece viene modernamente riferito, per il disuso dello strumento, al pettine tascabile o da toilette.(15) Ma la più suggestiva connessione linguistico-antropologica fra natura e cultura è quella tra la concezione e la voce denominativa del giardino, nel passaggio parallelo che l’immagine compie dall’aspetto sacro di orto chiuso, Eden (mutato e inteso da nóme comune, indicante il deserto, a nome proprio di luogo) a sito estetico e voluttuario, per influenza del gr. TcapàSe.iocx ricalcato sul persiano pardés, con cui fu tradotto l’ebr. Eden (Gen. 2,8). Da qui la qualifica di giardino dei beati e la sua identificazione nel Paradiso cristiano, che è l’idealizzazione del medievale Paradiso terrestre, nonché la similitudine con l’oasi, dove «si rinnova continuamente il miracolo della rinascita vegetativa della natura» e che, nel gr.( )‘riposo, rifugio’, ricalcato sull’antico egiziano uah ’stazione’, s’inscrive anch’esso nella ideologia del cammino terreno e ultraterreno, di cui costituirebbe solo una tappa. Di tali tappe o poste di viaggio è segnato il percorso delle antiche carovaniere che trasportavano oro, incenso e mirra, prodotti di largo giro commerciale utilizzati anche da Egizi e Caldei come donativi rituali da offrire alle Divinità. Incenso e mirra si estraevano da alberi esotici che prosperavano non nei giardini della valle del Nilo, ma in quelli dello Yemen e dell’Arabia felix et fortunata (Plinio XII, 30). E dall’Oriente provennero i tré (o quattro) Rè Magi alla Grotta di Betlemme, già adibita al culto di Tammuz, divintà ebraica di ambiente agricolo-pastorale.

Le oasi del deserto presentano altre problematiche, a cui la recente ricerca antropologica sta dando delle risposte convincenti riguardo alla individuazione dei centri di ritualità e potere: le Capitali del deserto, potremmo chiamarle, esistenti anche in società apparentemente frantumate e in spazi senza fissi confini. Sono state rilevate in Indonesia, Africa, Medio Oriente e analizzate sul piano antropologico da Pernotti, Scarduelli e Fabietti.(16) Esse andrebbero aggiunte alle Città del sole, se non altro per il simbolismo architettonico che i relativi edifizi del potere riflettono. Ecco quanto, ad esempio, Scarduelli ha riscontrato nei villaggi dell’isola di Nias, che si trovano agli estremi confini occidentali dell’arcipelago indonesiano, a ovest di Sumatra:

[…] i quattro pilastri angolari presso i quali siedono consiglieri, depositar! della tradizione, sono chiamati “pilastri del ciclo” (chomo banua) e […] quello sotto il quale trova posto il primo consigliere viene indicato come “fondamento del ciclo”. Invece i quattro pilastri centrali sotto i quali siedono i nobili e il capo sono definiti osale, termine che indica ciò che è sacro, potente, proibito. Se le posizioni spaziali dei dignitari e dei capi visualizzano, attraverso l’opposizione centro/periferia, i rapporti gerarchici, i termini con i quali tali posizioni vengono indicate stabiliscono due diverse modalità di comunicazione con il mondo degli spiriti ancestrali: i consiglieri, i “pilastri del ciclo”, sono i depositar! e i custodi della tradizione, coloro che vigilano affinchè venga rispettata; il capo e i nobili, dotati di un potere rivestito di sacralità in quanto discendenti diretti degli antenati fondatori, incarnano l’ordine e i valori tradizionali e assicurano la riproduzione materiale e sociale della comunità; è quindi nel baie che la centralità simbolica del capo assume il massimo rilievo. L’associazione del baie con l’ordine cosmico è poi rafforzata dal fatto che la parte anteriore dell’edificio è dedicata a Lowalani, la divinità celeste, mentre quella posteriore è dedicata a Latura Dano, dio degli Inferi.(7)

Una trattazione specifica meriterebbero le oasi di pietra, che, per la struttura architettonica, il modello di vita e i valori che tramandano. Laureano pone forse troppo arditamente sullo stesso piano delle oasi del deserto. Comunque le oasi di pietra site nell’Italia del Sud ci appartengono più da vicino. O siamo noi che apparteniamo a loro, che sono segni testimoniali di una duplice miseria, materiale e psicologica, e però furono complessi vitali, di una vitalità violentata (mi riferisco ai Sassi di Matera) o degradata (mi riferisco ai Trulli di Alberobello)? Solo in una prospettiva globale le loro forme e strutture di vita hanno analogie e ragioni comuni di riscatto con quelle di popoli primitivi. Laureano ne discorre ampiamente: ai Sassi è tutto dedicato il suo precedente libro, ai Trulli – chi sa? – dedicherà il prossimo?

Concludo sottolineando e rimarcando la proposta racchiusa nel titolo del libro La piramide rovesciata, che è il leitmotiv di tutta la trattazione. Al di là del suo valore di messaggio, essa vale come tesi culturale da opporre alla interpretazione darwinistica (e non esattamente darwiniana) delle leggi evolutive, che stimolerebbero una continua lotta o sfida collettiva e individuale di resistenza e prevalenza. La punta della piramide va rivolta in giù, per penetrare nella terra e succhiarne gli umori, adeguando e armonizzando la nostra cultura alla natura, non il contrario.

GIOVANNI BATTISTA BRONZINI


* Testo, sistemato per la stampa, della presentazione, svoltasi il 9 febbraio 1996 nella Sala Consiliare del Comune di Alberobello, del volume di PIETRO LAUREANO, La piramide rovesciata. Il modello dell’oasi per il pianeta Terra, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.

(1) Cfr. GIOVANNI BATTISTA BRONZINI, La devianza. Premessa di ordine antropologico-culturale, in «Atti pre-congressuali del VI Convegno della Società italiana di criminologia» (Bari, 22-25 aprile 1977), Bari, Adriatica. 1977, pp 11-16; ID., Cultura contadina e idea meridionalistica. Bari, Dedalo, 1982, pp. 95-116.

(2) Cfr. GAETANO FORNI, Acqua e agricoltura, in margine al X Congresso intemazionale degli agromusei (27 sctt.-3 ott. 1992), in «Lares», LIX, 1993, pp. 333-355.

(3) FEDERIGO CHABOD, Storia dell’idea d’Europa, a cura di Ernesto Sestan e Armando Saitta, 4″ ed., Bari, Laterza, 1970, pp. 23, 58, 61.66.

(4) ERNESTA CERULLI, Traduzione e etnocidio. I due poli della ricerca etnologica oggi, Torino, Utet, 1977: opera da me recensita in «Lares», XLV, 1979, 4, pp. 571-574.

(5) ERODOTO, Le Storie, a cura di Aristide Colonna e Fiorenza Bevilacqua, II, Torino, Utet, 1996, p. 73.

(6) CARI.O FERDINANDO RUSSO, Lo stile dell’ergo da Chio a Roma, in «Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia», 4 voll. Modena, S.T.E.M., 1990: IV, pp 1185-1186; ID., I barbari a Chio, da ‘Alef ad Alfeo, in «Belfagor», XLVIII, 1993, 4, pp. 647-654.

(7) Notizia data in «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 22 dicembre 1991, p 15

(8) Gli Atti sono in corso di stampa

(9) Segnalo alcune importanti pubblicazioni di etnologia e antropologia culturale: ERNESTA CERULLI e VITTORIO MACONI, Popoli e culture dell’Africa, Genova, Tilgher, 1962; AA.VV., Tradizione e mutamento in Africa, Bologna, Coop. Libraria Universitaria, 1974; JOHN BEATTIE, Un reame africano: bunyoro, Roma, Officina Edizioni, 1974; MARIANNITA LOSPINOSO, II divorzio nell’Africa Occidentale e nel Camerun, Genova, Tilgher, 1975, ID., Ombre divise e maschere umane, Napoli, Liguori, 1987; J. KI-ZERBO, Storia dell’Africa nera. Un continente tra la preistoria e il futuro, Torino, Einaudi, 1977; MARIO ATZORI e MARIA M. SATTA, Cristianesimo e colonialismo. Conquistadores, missionari e stregoni in Africa, Cagliari, Zonza, 1978.

(10) Per la letteratura e critica letteraria: ROBERT PAGEAD, L’évolution de la littérature en Afrique noire: un nouveau manteau d’Arlequin, in «Les Lettres Romanes», XXXIII, 1979, pp. 329-333; PETER ABRAHAMS, Dire Libertà. Memorie del Sud Africa, a cura di Itala Vivan, Roma, Edizioni Lavoro, 1987; DRISS CHRAIBI, Nascita all’alba. Romanzo, trad. di Cristian Paterlini e Rolando Damiani, edizione italiana, a cura di I. Vivan, Roma, Edizioni Lavoro, 1987.

(11) Si vedano gli «Actes des journées d’études en littérature orale. Analyse des contes – Problèmes de méthodes (Paris, 23-26 mars 1982), intitolati Le conte, pourquoi? comment?Folktales, why and how?, Paris, Editions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1984.

(12) Cfr. «Fabula», XXXVI, 1995, pp. 365 366.

(13) Cfr. G. B. BRONZINI, La Puglia e le sue tradizioni in proiezione storica (con particolare riguardo al Gargano), in «Archivio storico pugliese», XXI, 1968, pp. 83-117.

(14) Cfr. MARIO ALINEI, La stabilizzazione di’! quadro geolingulstica europeo nel Mesolitico e Neolitico: stadio III di Homo Loquens, in «Quaderni di semantica», XVI, 1995, 2, pp 187-210: 197.

(15) Cfr. TEMISTOCLE FRANCESCHI, II proverbio e l’Api, in «Archivio glottologico italiano», LXIII, 1978, pp. 110-147: 130, G. B. BRONZINI, La letteratura popolare dell’Ottonovecento Profilo storico-geografico, Milano-Fircnze, Istituto Geografico De Agostini-Le Monnier, 1994 («Strumenti per l’italiano», dir. da Giovanni Nencioni, Ignazio Baldelli, Francesco Sabatini, n 5), pp159-160; ID., La logica del proverbio, in Atti del 1° Convegno di studi dell’Atlante Paremiologico Italiano (Modica, 26-28 ottobre 1995), in corso di stampa.

(16) FRANCESCO REMOTTI, PIETRO SCARDUELLI, UGO FABIETTI, Centri, ritualità, potere. Significati antropologici dello spazio, Bologna, II Mulino, 1989.

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