Le nostre città rischiano di affondare in una palude di acqua inquinata

Le nostre città rischiano di affondare in una palude di acqua inquinata.

A dimostrarlo è anche il caso della new town milanese di S.Giulia, sequestrata per inquinamento della falda. Sotto la capitale lombarda la falda idrica sta risalendo al ritmo di… cm l’anno, e particolarmente nell’area del quartiere di S. Giulia l’innalzamento del livello dell’acqua è stato di 2 metri dal 2000 a oggi.

“Il destino di molti centri urbani è quello di essere sommersi da acque sporche. Le città moderne sono macchine di concentrazione di acqua che viene inquinata e spesso ristagna senza riuscire a essere né ripulita né smaltita. È il caso di Milano, dove l’impianto tradizionale della gestione dell’acqua, basato sui Navigli e i fontanazzi, è stato distrutto in epoca industriale. Oggi, con la scomparsa del settore manifatturiero dall’area urbana, il consumo idrico per uso industriale è crollato e la falda è rigonfia di acqua inquinata”. A dirlo è Pietro Laureano, presidente di ITKI, l’Istituto internazionale per le conoscenze tradizionali nato a Firenze nel maggio scorso sotto l’egida dell’Unesco.

L’innalzamento delle falde acquifere mette a rischio allagamento le cantine e le autostrade milanesi, ma “stavolta, a Santa Giulia, ha portato alla luce la bomba ecologica della mancata bonifica dell’area ex Montedison, con il suo carico di inquinanti cancerogeni sul quale sarebbe dovuto sorgere il quartiere modello Montecity voluto dall’immobiliarista Zunino. In quell’area, oltre al carico inquinante, la falda sta risalendo a ritmi sostenuti, tanto è vero che nel progetto della new town della periferia sud, era prevista la costruzione di centrali a pompa di calore basate proprio sulla risalita della falda: una buona energia rinnovabile basata stavolta su un problema ecologico”.

Ma quella di Milano non è un’esperienza isolata. Si tratta di fenomeni – rileva il responsabile dell’ITKI – che si riscontrano in diverse zone del mondo. “Paradossalmente, alcune delle esperienze più evidenti del maluso delle acque nei centri urbani, si trovano nelle oasi del Sahara, ad esempio nelle cittadine di Ouarglà in Algeria e nel piccolo conglomerato urbano del Souf, tra Algeria e Tunisia. Nel deserto, dove l’acqua è meticolosamente gestita, la concentrazione idrica nelle città dà luogo all’impaludamento della zona. Va a finire che i palmeti muoiono, semi-sommersi da acque malsane, cariche di inquinanti e di sali, perché l’acqua attirata e inquinata dalla città è troppa e non riesce a essere riassorbita dall’ambiente desertico”. Così, Las Vegas intrappola e sporca, disperdendole in acquitrini, gran parte delle acque del Colorado, che ormai non arrivano più al mare.

Le tecniche tradizionali, assieme alle tecnologie di bonifica, possono dare un contributo importante per la soluzione del problema. “Laddove le città assorbono grandi quantità di acque, occorre realizzare accorgimenti spesso molto semplici per ridarla all’ambiente circostante. Una volta la falda di Milano – spiega Laureano – veniva gestita in modo naturale dai Navigli non canalizzati e l’abbondanza di acqua veniva redistribuita agli abitanti dai fontanazzi tradizionali. Oggi occorre pensare a metodi il più naturali possibili di bonifica delle acque inquinate e restituirle ad esempio alle aree agricole. Quello che si è fatto con successo in alcune zone di Delhi, in India, dove le acque utilizzate per usi sanitarie vengono filtrate con sistemi tradizionali e ridistribuite per le risaie. In realtà, si tratta della chiusura del cerchio: noi buttiamo via le acque arricchite di nutrienti naturali, come quelle reflue delle città, facendole arrivare direttamente in mare, dove provocano eutrofizzazione. Invece, ingrassiamo i nostri campi con fertilizzanti chimici, gli stessi prodotti dallo stabilimento Montedison che ha provocato la bomba ecologica di S. Giulia”. Le tecniche tradizionali sono un metodo di restauro del territorio e non una risposta all’emergenza: per questo l’ITKI nasce per realizzare l’archivio mondiale delle conoscenze locali che possono fornire un enorme contributo alla soluzione della crisi ambientale globale.

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Lalibela, Etiopia, UNESCO, 2009